Quando, nel mese di dicembre 1973, fui trasferito da Yaoundé a Londra, passai un mese e mezzo di vacanza a casa, per ricuperare il congedo non preso in precedenza, per la partenza del Nunzio, che era stato trasferito a Washington. In Europa faceva molto freddo ed era in corso la crisi energetica, con grosse limitazioni nell’uso del riscaldamento e dei carburanti delle auto. Senza che io me ne rendessi conto, quella violenta terapia del freddo fu per me provvidenziale.
Durante gli anni londinesi, avevo ogni tanto qualche disturbo: piccole febbri e disagi all’intestino, che erano attribuiti alle conseguenze della malaria presa in Camerun. Suor Helena, superiora delle suore che lavoravano nella Delegazione Apostolica, insisteva con me perché mi facessi visitare all’Ospedale per le Malattie Tropicali di St. Panchras. Rinviai sempre, e quando mi decisi a farlo, il mio tempo a Londra stava ormai scadendo. Dopo una prima serie di analisi, fui convocato per un ricovero: c’era qualcosa, ma sarebbero stati necessari ulteriori esami per verificare di cosa esattamente si trattasse. Dato che, nel frattempo, avevo ricevuto la lettera del mio trasferimento a Roma, in Segreteria di Stato, feci sapere che non mi sarei più presentato. Ma i medici di St. Panchras insistettero: dovevo andare perché poteva trattarsi di qualcosa di serio.
Andai quindi e rimasi all’ospedale per tre settimane, sottoposto a diversi esami ogni giorno, sempre con lo stesso deludente risultato: qualcosa c’era, ma non si riusciva a trovare dove fosse. Esami del sangue a diverse ore del giorno e della notte, esami delle feci e delle urine, pezzetti di pelle tolti da diverse parti del corpo, radiografia all’intestino con il bario, esami dei succhi dello stomaco con un filo che dovetti ingoiare, laparatomia allo stomaco, deglutendo una grossa capsula di metallo. Finalmente, quando il Signor Choice – ricordo ancora il nome, che ho benedetto tante volte! – usò le sue apparecchiature per guardare all’interno degli occhi, i colpevoli dei fastidi apparvero: “Eccoli qua!” Si trattava di larve dell’oncocercosi, giunte nel mio organismo grazie ad una puntura di insetto in qualche occasione in cui ero stato vicino ad un corso d’acqua – impossibile ricordare quando e dove – che si erano mosse attraverso le vene ed erano giunte ad insediarsi all’interno dell’occhio, in attesa di svilupparsi. Con ogni probabilità, il trasferimento in Europa ed il periodo di freddo intenso aveva imposto un letargo ai parassiti, che erano rimasti lì, in attesa di tempi migliori.
La sera stessa chiesi a Penelope, un’infermiera competente e gentile che conoscevo ormai bene, quali fossero i guasti che poteva causare l’oncocercosi. “I parassiti provocano danni irreversibili all’occhio, rendendo la persona cieca, e poi si trasferiscono verso il cervello”. Ce n’era più che a sufficienza per accettare qualsiasi terapia mi fosse proposta.
I primi giorni furono traumatici, per la necessità previa di eliminare subito alcuni parassiti presenti nell’intestino. Ma al secondo giorno di somministrazione delle grosse pastiglie gessose, che avevo già conosciuto in Africa, ero talmente malmesso che chiesi di interrompere la cura: “Se va avanti così, l’unico parassita a morire sarò proprio io”. L’argomento convinse il medico che giudicò sufficiente quanto era stato fatto. E si cominciò con il bannocide, una pastiglia dall’aspetto innocente ma molto forte. Doveva servire per uccidere i parassiti nel sangue, ed eliminare quindi il rischio di una continuazione della loro presenza nel mio organismo. Una somministrazione troppo rapida avrebbe provocato la morte di troppi parassiti e, in conseguenza, l’avvelenamento del sangue. Per evitare ciò, il primo giorno presi mezza pastiglia, il secondo giorno due mezze e via così in crescita, fino a giungere, alla fine della settimana, all’assunzione di dodici pastiglie, quattro per volta, in tre momenti della giornata. E così andai avanti per un mese intero. La cura era violenta, e un’ora dopo aver preso le medicine dovevo stendermi e lasciar passare il senso di prostrazione e di vertigine che provavo. Una volta che la cura era stata costruita, mi fu permesso di tornare in Delegazione e, poco prima della fine del mese, dopo una visita di controllo, potei partire per Roma, stanco e indebolito ma, per lo meno, ormai liberato dai parassiti dell’oncocercosi.
Un dettaglio curioso fu quello dei contatti con i superiori di Roma. Quando dovetti ricoverarmi al St. Panchras, il Delegato Apostolico informò subito la Segreteria di Stato delle ragioni del mio ritardo a raggiungere la mia nuova destinazione in Vaticano. Scrisse poi per far sapere che si era trovata la ragione dei disagi e per spiegare i rischi che avevo corso. Quando ero da tempo a Roma, Mons. Heim mi fece avere copia della risposta arrivata solo allora, nella quale lo si ringraziava per le attenzioni avute nei confronti di Monsignor Tonucci, “affetto da malaria”.
Nessun superiore a Roma mi chiese nulla in proposito, anche se i miei colleghi notarono lo stato di fisica debilitazione in cui mi trovavo. Camminavo stancamente e, in ufficio, non riuscivo a combinare niente. Chiesi quindi di poter anticipare le vacanze, per riprendere le forze, ma il permesso mi fu negato: la regola era di avere il congedo dall’inizio alla fine del mese, e dovevo quindi aspettare la fine di luglio per andare a casa il primo giorno di agosto. L’Assessore, saggiamente, concluse: “Se poi avrai ancora bisogno di un periodo di convalescenza, lo potrai chiedere”.