Don Guido Berardi
Quando penso a Don Guido Berardi, mi è difficile distinguere tra la realtà di quello che ho visto e sentito direttamente e le altre cose, che mi sono state raccontate da altri, che le avevano sperimentate. Perché, in qualche modo, Don Guido è sempre stato una persona speciale, a cui si faceva spesso riferimento per i suoi modi di dire, le sue prediche semplici e chiare, le sue trovate geniali negli studi biblici, la facilità con la quale trattava nello stesso modo il fanese e l’ebraico, la sua smania sempre rinnovata di poter compiere una speciale missione di evangelizzazione, che avrebbe cambiato il mondo.
La prima volta che ne conobbi bene il nome fu a scuola, quando il maestro ci disse che il quadro per studiare i verbi, con le tabelle dei modi e dei tempi, era stato fatto da un fanese. Così quel nome misterioso, Guido Berardi, scritto in calce al manifesto appeso in classe, si unì all’immagine del grosso prete che si muoveva per Fano con una bicicletta che, in confronto con lui, sembrava piccolissima.
In seguito gli incontri furono tanti: prima nelle occasioni in cui veniva a predicare al Duomo per qualche triduo o novena; alla fine quando gli aprivo la porta in episcopio, per i suoi incontri con il Vescovo Micci, di cui ero segretario. Le sue prediche erano seguite volentieri da tutti, con i suoi esempi raccontati con brio, facili da capire e sempre calzanti. Il suo dialetto, almeno secondo mio padre, che in materia era un purista, risentiva di qualche influenza un po’ campagnola. Ma i contenuti erano sempre interessanti. A dir la verità, di qualche sua storia non ricordo quale fosse l’insegnamento morale. C’era quella famosa del “sapore della prima moglie”. Un marito, al secondo matrimonio, rimpiangeva sempre il sapore dei piatti della moglie morta. Alla fine si scopre che quel sapore speciale non era altro che quello dei fagioli bruciati. Non ricordo però per quale applicazione pratica la storia fosse raccontata. Ma allora, se può essere una scusa sufficiente, ero ancora un bambino.
Quando ero seminarista al Seminario Romano, Bruno Burattini, che aveva studiato al Regionale e ora è parroco in Ancona, portò un fascicolo, ciclostilato a Fano, con “Gli esempi di Don Guido”. Si parlava di macchine da corsa, di partite al pallone e di altre cose semplici e immediate. Ci servivano moltissimo per la preparazione delle lezioni domenicali di catechismo, e furono molti a utilizzarli, anche tra quelli che, senza colpa loro, di Don Guido non sapevano nulla.
Don Guido aveva una capacità unica di capire le cose e di renderle semplici anche per gli altri. Nell’affrontare una lingua, ne coglieva i segreti, la smontava, ne raccoglieva i pezzi e ci organizzava subito un piccolo sistema per l’apprendimento facile. Qualche volta poteva sembrare un po’ semplicistico e anche misterioso nelle sue conclusioni. Per spiegare le difficoltà di pronuncia dell’inglese, una volta venne fuori così: “Come si dice pane a Fano?”. “Pan”. “E a Pesaro?”. “Pèn”. “Vedi? L’igles è acsì! (L’inglese è così)“.
Per anni soffrì molto per il desiderio che sentiva di andare missionario. Il fatto è che aveva sempre dei desideri eccezionali. Non gli bastava semplicemente partire per l’Africa e unirsi agli altri. Pensava, o secondo lui gli era stato detto, di dover fare qualcosa di speciale. L’ultima idea era di andare in Giappone, per convertire i giapponesi i quali poi, una volta caduta la cortina di bambù della Cina, avrebbero convertito i cinesi. Ma voleva che fosse il Vescovo a presentarlo al Papa, che avrebbe dovuto proclamare apertamente: “Come ai tempi apostolici c’erano Pietro e Paolo, anche ora io sono Pietro e lui, Don Guido, sarà Paolo”. Veniva allora in episcopio a trovare il suo “Miciulìn” che, ne era sicuro, gli avrebbe dato il mandato di partire. Mi diceva: “Ades ji vag giù, me vrichi in t’un lensol e tuti se cunverten (Adesso vado giù, mi avvolgo in un lenzuolo d tutti si convertono)“. Più tardi la prospettiva diventava difficile: il Vescovo non si convinceva, e lui stava già male: “En el so cum sarà. Mo sarà bel, perché tant ho da gi giù (Non so come sarà. Ma sarà bello perché comunque devo andare giù)“.
Il fatto è che anche in passato aveva avuto la convinzione di dover compiere missioni straordinarie, e neppure allora l’avevano preso sul serio. Quando ancora non era prete, e pensava di dover ripetere l’esperienza francescana, si era presentato in Vaticano vestito da monaco. Quando raccontava l’episodio era esilarante, ma faceva riflettere: “Mi hanno chiesto: Chi la manda? Se avessi detto che mi mandava un Cardinale, mi avrebbero fatto entrare con gli inchini. Invec j’ho dit: Mi manda Dio! e m’ han mis in galera (invece gli ho detto: Mi manda Dio! E mi hanno messo in prigione)“.
Restava male se gli si diceva di non credere alla verità della sua missione, e partiva in un sillogismo che non lasciava spazio alle obiezioni: “O è che so matt – mo en so matt, perché la scola, i libre i fag ben; o è che so bugiard (O è che sono matto – ma non sono matto, perché la scuola, i libri li faccio bene; o è che sono bugiardo)” – e qui ti guardava tutto addolorato: “en me dì che so bugiard!; e alora è vera (Non mi dire che sono bugiardo! E allora è vero)!”.
Aveva la fede semplice di un bambino. Alla vecchia madre malata spiegava che, alla sua morte, avrebbe messo un manifesto che diceva: Don Guido ha la gioia di annunciare a tutti che sua madre è andata in Paradiso. E sua madre, non molto impressionata, gli rispondeva: “Guido mia, l’ho sempre dit che si matt (Guido mio, l’ho sempre detto che sei matto)“.
Anche se non ne parlava volentieri, faceva capire di aver avuto delle esperienze mistiche, dei contatti speciali con Dio. Quando un seminarista gli chiese com’era l’estasi – un momento supremo di preghiera, in cui si può vivere il rapimento totale in Dio – diede questa definizione: “Se ved tut d’or e dentra se squaja (Si vede tutto d’oro e dentro si scioglie)“. La prima parte potrebbe sembrare banale, ma l’intuizione è corretta, perché è pur vero che lo sfondo d’oro è sempre servito nell’arte per indicare visivamente il divino, l’eterno. La seconda parte è comunque un capolavoro: “E dentra se squaja”, descrive in modo perfetto il totale arrendersi della sensibilità, in un’esperienza – l'”indiarsi” di Dante – che potrebbe essere assimilata alla fusione di elementi diversi in un unico magma bollente. E aggiunge l’elemento dell’amore, che, quando si manifesta come nella sua forma di innamoramento violento, fa sentire come uno scioglimento interno.
Tra le tante cose che ricordo di Don Guido, questa è forse la più bella e la più ricca: un’intuizione sul contatto con Dio e sull’amore, che, senza averla mai sperimentata, mi sembra profondamente vera. E certo, dopo una vita vissuta così, attraverso una fine silenziosa e nascosta, è facile pensare che quello che aveva descritto – “e dentra se squaja” – sia accaduto sul serio: lo sciogliersi in Dio non più solo come una sensazione transitoria, ma come stato costante nella vita eterna.
Cara Vittorina,
Eccoti qualche ricordo su Don Guido. Guardando al calendario penso di essere in ritardo, ma non ho potuto farlo prima. Se non serve a niente altro, tieni il tutto come segno di amicizia.
Spero che ci vedremo a Fano.