Loreto, 18 marzo 2016
La Solitudine del Padre
La parabola del figliol prodigo ha sempre ispirato riflessioni e creazioni d’arte. È facile per noi entrare dentro una storia che ci tocca tutti e della quale tutti ci sentiamo parte. Ognuno dei tre personaggi, che Gesù ci descrive con tanta sobrietà e maestria, ha una lezione per me: per quello che sono, per quello che posso essere, per quello che devo essere.
Mi fermo ora a contemplare la figura del Padre, e provo per lui un senso di rammarico, quasi di compassione. Il Padre vive in famiglia, tutto lascia intendere che sia una famiglia benestante e ben organizzata, con lavoratori dipendenti e quindi con una notevole ricchezza. Eppure, il Padre è solo, terribilmente solo.
Quando il figlio più giovane decide di andarsene, anticipa in un modo molto esplicito la morte di suo Padre: vuole l’eredità, quello che gli spetta. Ma nulla gli spetta finché il Padre vive. Con la sua richiesta, egli si comporta come se il Padre fosse morto, esprime il desiderio che il Padre muoia: “Voglio fare come se tu non ci fossi più”.
Il Padre, quindi, ha dovuto capire che quel ragazzo non lo considerava per niente. Sopportava soltanto la vita di famiglia, che per lui era solo noia e gli dava un senso di schiavitù, per dover stare dove non voleva stare, e fare quello che non gli interessava di fare. Per il Padre, era la scoperta improvvisa che gli faceva capire che quel figlio non esisteva più. O peggio: non era mai esistito, e la sua permanenza in casa era stata giustificata solo dalla comodità di avere tutto a sua disposizione senza dover faticare. Ma potendo scegliere, ecco, preferiva andarsene e smettere di fingere di avere interesse per una vita così ordinaria e prevedibile. Sceglie l’avventura, la sorpresa, le sensazioni forti e, soprattutto, la libertà da un Padre noioso e ormai superato nelle sue idee e nelle sue pretese.
Il figlio più giovane se ne va, e il Padre si rende conto che non lo ha perduto ora: in verità non l’ha mai avuto. Era già solo, senza contatti veri, senza comunione di cuori.
E ora mi chiedo quanto tempo sia stato necessario per il povero Padre, per capire che anche l’altro figlio era come assente da casa, e ci stava solo per abitudine, per dovere e per un impegno quasi solo burocratico. Se non l’aveva capito prima, l’ha dovuto capire quando il giovane scapestrato è tornato a casa. Tornato perché aveva fame, perché si era ridotto alla bassezza più volgare, perché non sapeva più dove andare. Ma l’altro, anche lui, ha mostrato quanto poco fosse vicino a suo Padre.
Il fratello rimasto a casa, il maggiore, sapeva pensare solo a una statistica di cose fatte, di doveri compiuti, senza nessuna comprensione per la bellezza del vivere insieme, sostenersi a vicenda, portare avanti un progetto comune. Niente di tutto questo: solo un’arida dichiarazione: “Ho fatto sempre il mio dovere e non mi hai dato neppure un capretto per una cena con gli amici”. Anche per questo figlio il Padre c’era, ma era come se non ci fosse. Non serviva a niente, non aveva niente da dire. Forse solo tanto da dare: ma cose, sicurezza, denaro. Non se stesso.
Il Padre era veramente solo. Per questo lo vediamo attendere il ritorno del figlio più giovane, e corrergli incontro quando, finalmente, lo vede da lontano e lo riconosce, pur nella sua umiliante miseria. Il Padre non vuole essere solo: vuole che suo figlio sia con lui, che lo capisca, che lo accolga e con lui condivida la vita. Per questo il Padre non esce solo per il figlio più giovane. Più tardi esce di nuovo, per convincere il figlio maggiore a prendere parte alla festa, e capire che ci sono gioie che vanno al di là dei semplici calcoli d’interesse.
È un Padre che non vuole restare solo, che vuole i figli vicini a sé, non per calcolo egoistico, ma perché vuole riversare sui figli il suo amore. Un amore ispirato da una misericordia infinita, che non si arrende di fronte a nessun ostacolo.
Il Padre che non vuol restare solo, che mi vuole vicino per riempirmi con il suo amore, è Dio, amore infinito, infinita perfezione di bontà. Un Padre che prende il mio nome e si identifica con me. Quello che si è spesso chiamato “il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe” aggiunge ora il mio nome a questo elenco, perché vuole essere con me e vuole che io sia con lui. Nel suo abbraccio di amore, con cui perdona la mia lontananza e la mia freddezza, manifesta la sua perfezione divina, il dono di sé per la mia felicità piena.
Nei giorni benedetti della Settimana Santa, facciamo nostro l’atteggiamento del Padre, che accoglie e dona amore. Dona a me, affinché anch’io sia capace di accogliere e di donare amore ai miei fratelli.