Loreto, 22 marzo 2013
Dopo aver visto quasi in faccia questi personaggi, dopo aver ascoltato le loro confidenze e le loro confessioni, nasce in me una domanda, che mi faccio nel silenzio della mia coscienza. Un silenzio turbato però dalla paura di una risposta, che fin da ora capisco che non può essere facile. “A chi somiglio io? A chi posso o devo sentirmi vicino? Chi si è comportato come mi sono comportato io, negli anni trascorsi della mia vita, fino a questo oggi che mi vede qui, in chiesa, a riflettere sulla passione di Gesù e sul mio ruolo in questo dramma?”
Tra tutti, non saprei chi scegliere. Forse mi piacerebbe avere l’amore semplice e sincero della donna che sparge profumo sul capo di Gesù. Però non sono sicuro di avere quel distacco dal calcolo interessato, che mi faccia dare generosamente, senza ragionare tanto e senza cercare qualche vantaggio dal mio gesto. Forse sono più vicino a quelli che facevano i conti sul prezzo dell’olio profumato, e non sapevano capire il valore del gesto.
O forse vorrei potermi identificare con il Cireneo, il poveraccio che si è trovato in contatto con Gesù solo per caso e malvolentieri, ma che ha potuto essergli di aiuto e poi ha abbracciato non solo la croce ma anche il condannato, al punto di diventare padre di Alessandro e Rufo, due membri della prima comunità cristiana.
Ma temo di essere più vicino agli altri, a quelli che hanno sbagliato, e hanno capito solo tardi: il centurione ha guidato l’esecuzione e poteva giustificarsi con il fatto di aver obbedito agli ordini. Quanti ordini ingiusti sono stati dati, nella storia dell’umanità; quanti delitti atroci eseguiti senza rimorsi, perché eseguivo ordini, facevo soltanto il mio dovere; quanti omicidi, solo perché non c’è stato il coraggio di sostenere un’obiezione di coscienza totale e senza riserve. Almeno il centurione romano ha capito, alla fine, che quel condannato in verità era un giusto, un innocente, e forse portava dentro di sé una dignità al di là di quella di un semplice uomo.
E allora guardo a Pilato, guardo a Giuda, guardo a Pietro. Se conto i miei tradimenti, che ho ripetuto tante volte, la loro colpa mi sembra cosa da poco. In fondo, il procuratore romano non aveva idea di chi fosse l’uomo che gli era stato consegnato; Giuda era stato deluso dalla mitezza del Maestro; Pietro era caduto nella trappola tesagli dalla sua stessa superficialità. Ma io so bene di chi si tratta, io ho studiato le pagine del mio catechismo, ha fatto scelte di vita che dovevano essere definitive. Ho detto, a tutta voce, “Rinuncio” e ho detto “Credo”. E poi, di fronte ad una tentazione anche banale, ho fatto marcia indietro; di fronte alla sfida di qualcuno che mi prendeva in giro, ho scelto di non conoscere il Signore; ho commesso azioni delle quali posso avere soltanto vergogna. Sono riuscito ad essere peggio di loro: peggio di Giuda, peggio di Pilato, peggio di Pietro.
Ma di fronte a me sta Cristo che, dalla croce, mi perdona e mi dà la possibilità di ricominciare. E in questo, allora, almeno in questo, sento di poter somigliare del tutto a Pietro e al suo amaro pianto di pentimento. Giuda non è stato capace di sperare ed è morto nella sua disperazione: questo, il peccato peggiore che ha commesso. Peggio che tradire il Signore è non avere fiducia nella sua misericordia. Pietro invece ci ha creduto e, dopo lo sbaglio umiliante, ha trovato ancora la via dell’amore ed ha ripreso il suo posto, lui, responsabile dei fratelli, lui roccia ferma su cui la nostra Chiesa è costruita.
È questa la via di santità che scelgo, quella di Pietro, che sia anche mia: una santità non fatta dalla perfezione di chi non ha difetti, ma dalla costanza di chi non fa mai la pace con i propri difetti. E per questo conto sull’amore misericordioso di un Dio che apre le braccia sulla croce, per abbracciarmi e riconoscermi suo fratello.