Fano – Cattedrale 12 ottobre 2019
Ogni epoca ha avuto i suoi lebbrosi. Persone che, con o senza loro colpa, non sono solamente malati e poveri, ma che insieme all’infermità portano con sé una sorta di scomunica sociale, anche solo perché hanno un aspetto sgradevole, che respinge e rende difficile il contatto. Una volta, i lebbrosi mettevano paura, per l’aspetto piagato del loro corpo, conseguenza non della malattia in sé ma della mancanza di sensibilità causata dalla malattia. Per questo erano separati dal contatto con gli altri, reclusi nei lebbrosari, e li si è voluti considerare pericolosi e destinati soltanto ad aspettare la morte. Oggi sappiamo invece che la lebbra non è poi così pericolosa, ed è meno contagiosa persino di un raffreddore. Sappiamo anche che sarebbe facile curarla, specialmente se ci fosse qualche ricerca seria per trovare una terapia adeguata. Ma, dato che la lebbra colpisce soltanto persone di paesi poveri, a nessuno interessa spendere soldi per loro.
Dovremmo chiederci chi sono i lebbrosi di oggi. E ognuno di noi può dare la sua risposta o le sue risposte.
Di fronte ai lebbrosi, di ieri e di oggi, la reazione spontanea è quella di starne lontani, di mantenere le distanze, in modo che non ci sia contatto diretto con persone che, in un modo o nell’altro, vediamo come colpevoli delle loro sciagure. Dall’alto del nostro stato di salute, giudichiamo chi sta male. Dall’alto del nostro benessere, giudichiamo chi è povero. Dall’alto della nostra cultura, giudichiamo chi è o ci sembra ignorante.
Dal Vangelo impariamo quello che è invece il metodo scelto da Gesù: non far finta di non vedere, non allontanare e dimenticare, ma farsi carico e intervenire. Basta una parola del Signore per offrire ai dieci lebbrosi una vita nuova. Che poi uno solo sia tornato a ringraziare, e proprio un samaritano, quindi uno straniero disprezzato, è causa di rammarico. Ma, anche agli ingrati, la guarigione non è tolta. Però solo il samaritano può sentirsi dire che non soltanto è guarito, ma è anche salvato: il che indica una pienezza di grazia che abbraccia la persona intera, in tutte le sue facoltà, fisiche e spirituali.
L’insegnamento che Cristo ci dà è chiaro: chi vuole essere suo discepolo deve farsi parte attiva nell’opera di salvezza nel mondo. Nessuna persona vivente in questo mondo ci può essere indifferente, nessun dramma umano o sociale può accadere senza che tocchi in profondità la nostra coscienza. Le possibilità per i nostri interventi potranno essere forse limitati, ma se ci pensiamo bene e se ci rendiamo conto della nostra responsabilità, capiremo che possiamo e dobbiamo fare molto di più di quello che fino ad ora abbiamo cercato di fare.
L’episodio narrato nella prima lettura, anch’esso in riferimento a un lebbroso, ci fa capire un altro aspetto della metodologia di Dio, ed è la sua pazienza. Il cammino verso una fede piena può essere lento e può prevedere anche passi falsi. Il generale siriano Naaman, una volta guarito, professa la sua fede nel Dio d’Israele. Tornando a casa sua, porta con sé un carico di terra, con l’idea che quel Dio poteva funzionare solo se c’era un contatto fisico con la terra di sua competenza. Siamo ben lontani dal capire che Dio è uno solo, che è il Signore del cielo e della terra, e che la sua onnipotenza agisce ovunque. Ma quella fede, ancora primitiva e ingenua, non viene respinta: Dio è paziente, sa aspettare. Lo è stato con Naaman, lo è sempre anche con noi, lo è con i nostri fratelli di altre religioni o senza nessuna religione. Quel poco di bene che c’è nel cuore di una persona non va ignorato, quella fiammella di luce non può essere spenta.
Sono idee che ci aiutano a capire il modo in cui don Paolo, di cui ricordiamo i 25 anni dalla morte, ha lavorato per evangelizzare i fratelli del Brasile. Un lavoro paziente, con la necessità di conoscere bene e di apprezzare quello che si viveva già, e insieme offrendo nuovi stimoli per conoscere meglio e vivere in pienezza gli ideali del Vangelo. La fede anche primitiva, anche ingenua, non va scoraggiata ma aiutata a crescere e a maturare. Un lavoro che non permette di lasciare da parte i più poveri, i più piccoli, tutti quelli che una società egoistica tende a ignorare e a dimenticare. Un lavoro che offre, come risultato certo, una forte maturazione nello stesso evangelizzatore, che diventa discepolo del Signore più e meglio di prima, proprio attraverso quello che impara da coloro con i quali sta camminando, che ascolta e che ama.
Mi sembra importante chiederci come sia possibile che, dopo tanti anni, questo esempio sia ancora ricordato. In fondo, stiamo parlando di un prete che ha lavorato in semplicità, in ambienti del tutto ordinari, lontano dallo sguardo dei mezzi di comunicazione, senza sforzi pubblicitari. Non c’erano telecamere a seguirlo nei suoi itinerari nei vicoli di Fazenda Grande o nei sentieri rurali di Camaçari. Non c’erano giornalisti a riprendere per noi le sue parole di denuncia, nei diversi incontri con le autorità locali, con i lavoratori, con i membri della polizia. Facendo quello che faceva, non pensava all’effetto che avrebbe suscitato nella nostra considerazione in Italia, ma vedeva soltanto quelle persone che la Provvidenza aveva affidato alla sua cura. Solo ora, con qualche sforzo, riusciamo a mettere insieme qualche parte degli insegnamenti dati e vissuti nei suoi anni di servizio missionario.
Eppure, dopo 25 anni, lo ricordiamo ancora e ci sentiamo, forse più di prima, spinti a seguire il suo esempio di coraggio, di coerenza, di fedeltà alla parola del Vangelo.
È bello pensare che chi è stato capace di aprire il proprio cuore con un amore davvero universale lascia un segno di bene. Chi chiude il cuore, e con il cuore chiude tante altre realtà, che sia la porta, o il confine, o in maniera grottesca i porti, per difendere l’egoismo di chi non vuol condividere nulla con i fratelli meno fortunati, potrà lasciare dietro di sé soltanto una triste scia di dolore, che diventa spesso una scia di sangue.
Celebrando l’Eucaristia, in comunione con Cristo che ci salva offrendo se stesso a tutti noi, chiediamo a Dio di aiutarci a vivere una vita donata, una vita spesa, una vita aperta al bene verso tutti. E per Gesù, dire tutti vuol dire: “soprattutto il miei fratelli più piccoli e poveri”.