Fano, Cattedrale, 9 ottobre 2004
L’episodio che abbiamo ascoltato, dal Vangelo di Luca, si colloca nel corso dell’itinerario di Gesù verso Gerusalemme, un viaggio che abbraccia tutta la seconda parte del libro. È una indicazione utile, perché fa sentire la vita del Signore come un modello della nostra vita, che è anch’essa un pellegrinaggio per raggiungere la meta. Tra i tanti avvenimenti che dobbiamo vivere, tra le tante preoccupazioni che dobbiamo affrontare, quello che veramente conta è di non perdere il senso della direzione, di non smarrire l’idea che l’importante è andare avanti in un cammino, che ci deve condurre a Gerusalemme, al destino cioè che il Signore ha preparato per noi, nel Suo progetto di amore.
La storia dei dieci lebbrosi è esemplare. La lebbra, ieri e oggi, è il simbolo di ogni malattia e di ogni maledizione. Il lebbroso è separato e tenuto lontano, indicato come qualcuno che Dio ha rifiutato e che certamente sta pagando per qualche peccato molto grave. Lo si incontra con un senso di repulsione e si evita ogni contatto con lui. Che si tratti di un malato di AIDS o di un handicappato, che sia un extracomunitario o un drogato, che sia qualcuno di cui si sa che vive una vita scandalosa o qualcuno dal quale ci aspettiamo che stia per chiederci un prestito o una elemosina, cercheremo in ogni modo di non vederlo e di non avere nulla a che fare con lui. Né più né meno come dovette accadere a Gesù, quando, nel cammino verso il Calvario, suscitava ribrezzo ed era “disprezzato e reietto dagli uomini, come uno davanti al quale ci si copre la faccia” (Is. 53, 3).
I dieci lebbrosi sono consapevoli di questa loro situazione: restano lontani e gridano da lontano la loro richiesta. Questa volta, contrariamente ad altre occasioni simili, Gesù non compie il gesto di toccarli né dice loro che desidera guarirli. Li manda semplicemente a compiere l’atto necessario per essere riammessi nella società, con la certificazione delle autorità che la loro situazione era cambiata.
La storia continua con la reazione di uno solo dei dieci lebbrosi, che loda Dio e torna a ringraziare Gesù per il beneficio ottenuto. Le parole usate hanno un significato profondo, che non dobbiamo trascurare. I dieci lebbrosi, si dice, “furono sanati” mentre andavano in cerca dei sacerdoti che potessero verificare la loro guarigione. Quando poi l’unico tra loro torna da Gesù, questi chiede: “Non sono stati guariti tutti e dieci?” E alla fine, dichiara con forza a quello che gli stava davanti: “Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato”. Notate quindi che si passa dal “guarire” al “salvare”. E questa distinzione fa riflettere, perché essa descrive anche l’azione della Chiesa e dei suoi ministri.
Senza forzare in nulla il senso dell’episodio, possiamo vedere nel “guarire” una fase dell’opera di evangelizzazione, quando l’amore per il prossimo si manifesta nell’impegno sociale, per il miglioramento delle situazioni umane, per la promozione della dignità delle persone, per la loro liberazione dalle tante forme di schiavitù, di discriminazione e di sottosviluppo. Non c’è bisogno di ricordare quante iniziative di questo tipo sono state intraprese dai missionari e quindi dalla Chiesa intera, in tutti i momenti della storia e in tutte le condizioni in cui gli evangelizzatori si sono trovati ad agire. Anche Don Paolo, insieme con i suoi confratelli e con i cooperatori laici con cui ha lavorato, ha promosso molte imprese del genere: all’inizio, il piccolo posto medico di Fazenda Grande, poi il ben più significativo istituto professionale “Primeiro de Mayo”, e in seguito le varie iniziative per la promozione umana e professionale delle donne, la commissione “Giustizia e Pace”, e infine, correggendo la sua iniziale perplessità, l’impulso dato al progetto di adozione a distanza “Agata Smeralda”.
La domanda che ci facciamo è quella di sapere quale sia il significato di queste iniziative. Si potrebbe pensare che esse siano dei mezzi per arrivare a risultati più specifici di conversione al cristianesimo, una specie quindi di preparazione all’evangelizzazione, per rendere i futuri cristiani pronti al passo successivo dell’adesione alla fede. In questo caso, si tratterebbe, né più né meno, di un trucco per attirare conversioni, cercando di dimostrare semplicemente che ad essere cristiani conviene, perché si possono ricevere dei grandi benefici.
Ma la risposta ci viene proprio dall’atteggiamento di Gesù: la guarigione ai lebbrosi è data senza condizioni, nello stesso modo in cui il pane moltiplicato è offerto a tutti quelli che ne avevano bisogno, il vino a Cana è distribuito a gente in gran parte sconosciuta, la vista è donata al cieco nato prima che egli potesse avere una qualsiasi forma di fede nel Signore, e addirittura si guarisce il paralitico, che, come tutta risposta, denuncerà Gesù ai farisei. La salvezza completa è poi una dimensione ulteriore, un dono gratuito che il Signore offre a chi lo accoglie con un cuore aperto. Questo non cambia il fatto che il primo gesto di amore è fine a se stesso, in quanto manifestazione della misericordia di Dio che ha compassione della folla, che si prende cura di quelli che vede abbandonati come pecore senza pastore, che assume su se stesso le nostre infermità e debolezze.
Guarire e salvare sono lo scopo dell’opera di evangelizzazione, dell’annuncio universale dell’amore di Dio Padre per ciascuno di noi, senza fare distinzioni che limitano o qualificano questo amore. Non c’è, nella manifestazione di questo amore un ‘prima’ e un ‘dopo’, qualcosa che deve precedere e qualcosa che deve seguire. L’amore di Dio è per l’uomo tutto intero, nelle sue esigenze immediate e nei suoi desideri infiniti, nei suoi bisogni dell’oggi e nelle sue aspirazioni eterne. La libertà umana giunge anche a poter rifiutare il dono dell’amore completo di Dio, a ricevere quindi una guarigione senza saper cogliere insieme la bellezza della salvezza intera, della liberazione piena. Ma l’eventuale rifiuto della salvezza non porta con sé la negazione da parte di Dio della guarigione: Gesù si è rammaricato per il fatto che uno solo dei lebbrosi sia tornato “a rendere gloria a Dio”, ma non per questo ha condannato gli altri, e non ha tirato indietro la guarigione già offerta. Il dono era ed è rimasto un segno dell’amore gratuito di Dio.
La volontà di salvezza di Gesù si esprimeva sia nell’offrire una risposta alle necessità del momento, sia nell’annunciare le grandi verità della fede. Non potremmo certamente distinguere e dire: “Gesù agisce qui da Salvatore, qui invece è soltanto guaritore”. Evangelizzare significa annunciare nella vita concreta l’amore di Dio, che si esprime nel doppio comandamento di amore verso Dio e di amore verso il prossimo. Non ci dovrebbe quindi essere una distinzione, e ancora meno una separazione, tra evangelizzazione e promozione umana, dato che ambedue le dimensioni fanno parte dell’annuncio del Vangelo. E non dimentichiamo mai quello che ci dice l’apostolo Giovanni: “Noi amiamo perché Dio ci ha amati per primo. Se uno dicesse: ‘Io amo Dio’, e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1 Gv 4,19-20).
Possiamo così capire meglio quanto fosse vera quella frase di Don Paolo, che abbiamo scelto un po’ come suo motto e come la migliore definizione della sua personalità sacerdotale: “Mi sono sempre sentito prete impegnato nell’evangelizzazione, sia quando celebravo la Messa o annunciavo la Parola di Dio, sia quando protestavo perché venivano distrutte le baracche delle famiglie o facevo amicizia con gli operai, i disoccupati, gli universitari, i professori”. Prete sempre, evangelizzatore sempre. Per vivere ed affrontare i problemi quotidiani alla luce della fede, non per dimenticarli grazie a qualche consolazione devozionale. E non per lasciare da parte la fede, dato a qualcuno può sembrare che essa impedisce un impegno radicale nella lotta contro l’ingiustizia. Prete sempre, evangelizzatore sempre. E quindi mai assistente sociale o agitatore politico; e mai predicatore di una spiritualità disincarnata, che serva a distrarre dai problemi del giorno.
Devo aggiungere un’altra considerazione, tratta dalla prima lettura. Anche lì si parla di un lebbroso guarito. Il generale Siro Naaman è stato risanato, attraverso l’intervento miracoloso di Dio che, anche nel suo caso, usa uno strumento semplice e quotidiano: un bagno nel fiume Giordano. Dopo essere stato guarito, egli afferma la sua fede nel Dio d’Israele e quindi vuole caricare e portare con sé un po’ di terra di quella regione, per pregare solo stando sopra di essa. È un’espressione curiosa, che indica una fede molto primitiva: si capisce che Naaman non vedeva il Signore come l’unico Dio, ma come un Dio tra gli altri, forse più potente, ma legato esclusivamente al popolo d’Israele. Per evitare che, una volta tornato in patria, Naaman perdesse ogni contatto con il Signore, che lì era un estraneo, egli pensa di portare con sé due carichi di terra, con la quale avrebbe potuto creare quel vincolo materiale che sarebbe altrimenti mancato. Un’idea molto ingenua, legata a una concezione idolatrica. Eppure il profeta non rifiuta la richiesta, e non spiega al generale guarito come stanno le cose: la fede limitata di Naaman va incoraggiata, non umiliata. È già un passo in avanti, ed è un passo fatto da un cuore semplice ma pieno di amore.
Lo stesso atteggiamento di comprensione e di pazienza si è manifestato nel modo in cui Don Paolo ha esercitato il proprio ministero in Brasile, capendo sempre di più e sempre meglio che, in certe manifestazioni di fede semplice e primitiva, si rivelava un amore grande e genuino, un desiderio autentico di relazione con Dio e di impegno nella vita quotidiana. Per questo egli ha accompagnato il cammino della gente che serviva non offrendo loro una visione di fede diversa. Quante volte ci siamo sentiti dire in questi anni: “Avete sbagliato tutto, dopo il Concilio queste cose vecchie non si fanno più, ora siamo moderni e impegnati”. Paolo ha dato loro la possibilità di arricchire con valori più profondi quella fede che essi già vivevano. Di qui il lavoro per offrire testi adeguati per le diverse occasioni di devozione: mese di maggio, preparazione alla festa del Patrono, novene varie, e addirittura la ‘tredicina di Sant’Antonio’. Di qui anche la ricerca di momenti che potessero unire i fedeli in gesti concreti e significativi, come, ad esempio, le processioni. Più di una volta mi diceva: “Ho inventato un’altra processione”. Anche questi, adeguatamente preparati e ben organizzati, erano momenti di evangelizzazione, per chi vi prendeva parte e per chi vi assisteva e, attraverso di essi, subiva forse il fascino di una testimonianza di fede. Ci sono cose che potremmo imparare di nuovo anche noi, che ci stiamo abituando a manifestare la nostra fede in maniera talmente nascosta e disincarnata, da correre il rischio di renderla priva di significato e di impatto.
Ecco alcune riflessioni, che la Parola di Dio ci suggerisce, mentre ci soffermiamo sulla persona e sull’opera di Don Paolo, un sacerdote di questa diocesi di Fano. Il suo messaggio continua ad essere attuale, anzi lo è forse ancora di più di quanto non lo fosse al momento della sua morte. La sua coerenza di cristiano e di sacerdote ci sfida, e ci stimola a seguirne l’esempio. Se guardiamo alla nostra vita con gli occhi della fede, capiamo che la morte non pone la parola ‘fine’ ad un impegno, ma lo conferma e lo trasmette a chi rimane a continuare la lotta. Non c’è posto per rinunce e per delusioni: “Ho provato e non sono riuscito; le cose andranno sempre così ed è inutile insistere; mi ero illuso ma ora capisco che è meglio adattarsi”. Ripetiamoci le parole di San Paolo a Timoteo: “Se moriamo con Cristo, vivremo anche con lui; se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, anch’egli ci rinnegherà; se noi manchiamo di fede, egli però rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso” (2 Tim 2, 11-13).
Anche oggi ci sono lebbrosi, di ogni tipo, che aspettano di essere guariti, e ognuno di loro merita di essere aiutato, perché per ognuno di loro il Signore ha un progetto di amore. Anche oggi ci sono tanti che aspettano di essere salvati, e ognuno di loro ha il diritto di ricevere la proposta di salvezza, perché per ognuno di loro il Signore ha un progetto di amore. I piani di amore di Dio passano attraverso strumenti umani, e noi siamo quegli strumenti. Don Paolo ha usato la sua vita fino in fondo per offrire guarigione e salvezza a coloro con i quali era in contatto. Sta a noi continuare la sua opera, perché le parole di Cristo si ripetano ancora e ancora nella storia mia e di tanti: “Alzati e va; la tua fede ti ha salvato”.