Chiesa di S. Maria del Suffragio, 9 ottobre 1998, Venerdì XXVII settimana
Galati 3,7-14
Luca 11,15-26
La lettura del Vangelo ci colloca al centro della lotta tra il bene e il male, che ha segnato lo svolgimento della vita di Cristo e che segna oggi il cammino della Chiesa. Ognuno di noi è parte di questa lotta, sia nella nostra esistenza individuale sia come componenti di una realtà più vasta, la società umana, della quale viviamo in noi le contraddizioni, gli aspetti positivi e i difetti.
Gesù opera la salvezza nel suo significato più completo. Egli guarisce tutto l’uomo, nelle sue infermità fisiche e nelle sue debolezze morali. Sana un paralitico, dicendogli: “Sono perdonati i tuoi peccati”, e perdona i peccati di un altro, quando gli dice: “Alzati e cammina”.
Di fatto, l’espressione che usiamo comunemente: “Salvare l’anima”, ha un significato approssimativo, perché di per sé quello che Dio vuole è la salvezza della persona intera, corpo e anima, che nella sua totalità è destinata alla Gloria del cielo, seguendo l’esempio di Gesù, asceso al cielo, e di Sua Madre Maria, assunta in cielo, l’uno e l’altra nella totalità delle loro persone.
Fa riflettere l’accusa fatta a Gesù: “I suoi miracoli hanno origine dal demonio”. È vero che, a quei tempi, molte malattie erano attribuite direttamente alla presenza del demonio. Comunque sia, in ogni episodio di guarigione, di liberazione da qualche forma di infermità, da ogni tipo di schiavitù, si doveva vedere un passo in avanti nella vittoria contro il male. Quello che si doveva quindi capire, come dice Gesù, era che “il dito di Dio” stava agendo e che il Regno di Dio era in mezzo a noi.
Non è facile portare avanti con costanza e coerenza questa lotta contro il male, in tutte le sue forme. Più di una volta si può avere l’impressione che stia accadendo proprio quello che dice ancora Gesù. Di fronte a un primo successo del bene, le forze del male si coalizzano, reagiscono con una violenza nuova e inaudita, in modo da far retrocedere ancora il bene e da dare l’impressione che le forze siano sproporzionate, che sia inutile lottare e che comunque il male sarà sempre il vincitore.
Qualcuno potrebbe adesso venire fuori a ricordare le pretese profezie di qualche spirito debole, impressionato dall’avvicinarsi della fine del millennio, che annuncia entro breve un attacco di fondo di Satana nel mondo. Come se il male di cui siamo testimoni non fosse sufficiente e quasi che la presenza del demonio fosse per noi più importante di quella di Cristo Salvatore. Checché ne sia di queste fantasie, fabbricate al di fuori della fede della Chiesa, resta a noi l’imperativo di essere con Cristo e di agire con lui per affermare la presenza del Regno di Dio nel mondo. Lo scoraggiamento di fronte agli insuccessi è comprensibile ma non è accettabile. Se andiamo avanti non è perché contiamo sui nostri successi, ma perché ci basiamo sulla vittoria di Cristo sul male e sulla morte.
In questa prospettiva di fede, guardiamo al significato della vita di quelli che abbiamo conosciuto, che sono stati importanti per noi e che ci hanno preceduto nel cammino verso il Signore. Sono tanti, per ciascuno di noi. Tanti nell’ambito della nostra famiglia, tanti di più nel cerchio delle persone che abbiamo sentito amiche e con le quali abbiamo condiviso qualcosa delle nostre speranze, delle nostre pene, della nostra crescita umana e cristiana. Oggi, in modo speciale, ricordiamo Paolo, che è morto quattro anni fa, in quella mattina di Domenica 9 ottobre, che molti di noi non potremo mai dimenticare. Di lui, di loro ci chiediamo: che senso ha avuto la loro vita, ora che sono morti e che a noi resta solo il loro ricordo?
Di Paolo, in particolare, vorrei ora cogliere una lezione, legata proprio al Vangelo che abbiamo ascoltato. Egli ha capito che la liberazione portata da Cristo riguarda tutta la persona. La fede non ci amministra una consolazione per lasciarci tranquilli di fronte a tutto quello che non possiamo ottenere, ma è anzi uno stimolo costante per lottare e continuare nella lotta, per non illuderci nei successi e non farci abbattere dalle sconfitte, cominciando sempre da capo e mantenendo intatti gli ideali e viva la speranza di un trionfo certo, che nasce dalla croce e dalla risurrezione di Cristo. San Paolo ci ha ricordato: “Sta scritto: maledetto chi pende dal legno”, ma proprio attraverso la maledizione di Cristo giunge a noi la benedizione.
Negli anni di missione in Brasile, Paolo ha cominciato molte cose, progetti e programmi, del quali alcuni si sono esauriti o forse hanno fatto fiasco, mentre altri sono andati avanti. Ha studiato la realtà ed ha maturato diverse risposte, sempre riviste, corrette, talvolta cancellate del tutto ma più spesso migliorate. Negli anni più duri della dittatura militare ha mantenuto contatti con coloro che lavoravano nella clandestinità, e lo ha fatto con coraggio e senza bravate, correndo seri rischi per la sua vita. Quando poi la situazione cambiò, fu pronto a indicare la necessità di un atteggiamento diverso, per l’avvicinarsi di altri tempi e di altri modi di impegno.
Aveva in sé la speranza che fosse possibile cambiare le cose cambiando le persone, istillando ideali grandi ed esigenti. Ha ottenuto risultati, ha conosciuto delusioni. L’importante è che non si è mai arreso, non si è mai ripiegato in se stesso, ed è sempre andato avanti con una fede piena nei valori del Vangelo e con grande fiducia nei mezzi soprannaturali.
Ho sotto gli occhi la testimonianza di un suo amico in Brasile, che scrive: “La sua meta e il suo obiettivo non sono mai stati la conquista del potere o di incarichi, la sua missione era quella di lavorare per la costruzione del Regno, dove tutti potessero avere la gioia e la libertà dei figli di Dio, e questa utopia lo rendeva radicale nelle sue scelte e nelle sue strategie… Per questo non si lasciava condizionare, non accettava di essere incapsulato in un modello prestabilito… Nel lavoro pastorale capiva ma non appoggiava la frammentazione esistente tra i vari gruppi. A suo vedere, lo specifico non poteva trasformare i gruppi in ghetti, ciascuno a fare le proprie cose e a misurare il proprio territorio, e il lavoro si può solo capire quando si finalizza nella costruzione delle comunità, diventando quindi un servizio più amoroso e competente per la costruzione del Regno… Nelle sue obbligazioni personali di sacerdote era rigido, recitava sempre il breviario, celebrava e annotava tutte le messe celebrate, viveva il suo celibato con serenità e senza complessi, le sue amicizie si estendevano a tutti, giovani e vecchi, uomini e donne. Aveva un’attenzione spciale per i bambini e per i semplici, tanto che gli piaceva dire che il suo primo figlio era Albertino” (un giovane universitario, regredito in uno stato di inebetimento per le percosse ricevute dalla polizia, che ricuperò qualcuna delle sue capacità e la sua dignità grazie a molti anni di cure attente e amorose di Paolo).
Aggiunge poi un episodio gustoso, che la dice lunga sul come Paolo sentiva e affrontava le accuse e le calunnie: “Una volta P. Renzo arrivò preoccupato e agitato, come faceva lui, e chiamando Paolo da una parte, tutto allarmato gli disse: Paolo, dicono che tu qui hai dei figli! E Paolo, guardandolo con uno sguardo divertito, gli rispose: Renzo, non ti preoccupare che sono un buon padre. Come vedi, fino ad ora nessuna madre è venuta a reclamare gli alimenti per i bambini”.
Un impegno costante, perché fondato su una scelta di fede. Paolo ha fatto molto, credendo nella persona umana e credendo nella possibilità della conversione, anche nelle situazioni più crudeli e sclerotizzate, umanamente impossibili. E fino alla fine ha creduto nel valore di quello che faceva: lavorare, pregare, soffrire – quando quel lavoro, quella preghiera, quella sofferenza erano unite al lavoro, alla preghiera e alla sofferenza di Cristo.
Nel ruolo che a ciascuno di noi è stato affidato dalla Provvidenza, cerchiamo di imitare il suo esempio e di portare avanti la sua opera. La morte interrompe l’opera di uno, ma la missione della costruzione del Regno continua, ed è affidata da Dio alle mani e al cuore di ciascuno di noi.