Il 9 novembre 2006, per l’anniversario della “Kristalnacht”, a Stoccolma fu promosso un pellegrinaggio ecumenico, da una chiesa protestante ad una chiesa cattolica e infine alla sinagoga. In ogni sosta, era prevista una pausa di preghiera e una riflessione. Mi fu chiesto di parlare nella chiesa di Santa Eugenia, per grandezza la seconda chiesa cattolica di Stoccolma, retta dai Padri Gesuiti.
Stoccolma, chiesa di Santa Eugenia, 9 novembre 2006
Durante i giorni scorsi, mentre mi preparavo per questa commemorazione dell’episodio drammatico della Kristalnacht, ho riflettuto sulla presenza di membri del popolo Ebreo nella mia vita. Non ho potuto trovare molto, perché la mia esperienza era limitata ad un solo caso, e, in questo caso, il fatto che egli apparteneva ad uno specifico gruppo di persone non è mai venuto in superficie.
La storia è questa: quando era ancora un ragazzino, e stiamo quindi parlando del tempo immediatamente seguente la fine della Prima Guerra Mondiale, mio padre ha trovato lavoro come cameriere nell’unico albergo che esisteva nella nostra città, proprietà di una famiglia ebrea. Per mio padre, questa divenne quasi una famiglia adottiva e il loro figlio più giovane, Guido, divenne e rimase il suo migliore amico. L’amicizia continuò fino a più tardi, quando noi, suoi figli, in qualche occasione, incontrammo questo amico. Non ricordo neppure quando ci fu detto che egli era un ebreo, ma questa conoscenza non ha suscitato in noi nessuna impressione particolare. È stata uno di quelle cose che ti vengono dette, e che diventano soltanto parte del complesso di dettagli che identificano una persona da un’altra: viene da questo posto, è un amico, era molto ricco, ora ha dei problemi con la salute, e così via.
Anni più tardi, quando ero studente nel Seminario Romano al Laterano in Roma, erano ancora vivi i ricordi di quello che era accaduto in quel luogo durante gli anni bui della Seconda Guerra Mondiale, mentre era in corso l’occupazione tedesca. Un’intera sezione del Seminario era chiusa per gli studenti e, in quell’area, separata dal mondo esterno e protetta dalla extraterritorialità, era nascosto un numeroso gruppo di rifugiati politici, molti dei quali membri di partiti di sinistra, fortemente ostili alla Chiesa Cattolica. E poi c’erano gli ebrei di Roma, nascosti per sfuggire alla persecuzione e alla minaccia di deportazione in Germania. I nostri formatori ci raccontavano storie di quel periodo, quando loro stessi erano seminaristi. Sembra che tutti gli ospiti avevano vesti talari pronte, in modo da poterle indossare, in caso di una illegale ma possibile invasione da parte dei soldati. A differenza della Basilica di San Paolo fuori le Mura, San Giovanni in Laterano non fu mai violato, ma non so se a quei rifugiati era stato insegnato qualcosa del comportamento clericale, nel caso in cui dovessero fingere di essere non solo cristiani ma addirittura preti o suore!
Parlando più seriamente, se considero la mia percezione dei nostri fratelli e sorelle del popolo d’Israele, devo riconoscere che questa è derivata soprattutto dalla conoscenza della Bibbia e maturata attraverso gli studi del significato e l’interpretazione delle diverse tradizioni bibliche. La dichiarazione del Concilio Vaticano II “Nostra Aetate”, il gesto di Giovanni Paolo II, che ha chiamato il popolo ebraico “nostri fratelli maggiori”, sono stati per me soltanto la manifestazione spontanea di qualcosa che avevo sempre creduto e accettato.
Ricordo i lunghi momenti di meditazione, trascorsi vicino alle pietre del Muro Occidentale, quando per la prima volta sono stato in pellegrinaggio a Gerusalemme, una meditazione che ho ripetuto ogni volta che sono tornato lì. Questo monumento, talvolta ricordato come “il muro del pianto”, ci ricorda l’ambigua grandezza del Re Erode, un tiranno megalomane, servile verso i potenti e crudele verso i deboli. Per gli Ebrei, questa maestosa rovina è l’ultimo ricordo del grande Tempio di Gerusalemme, il luogo santo della presenza del Signore, costruito dal Re Salomone, abbandonato e ricostruito più volte, fino alla distruzione completa da parte dell’Impero Romano. I Romani speravano di stabilire anche in quella regione l’autorità della “Pax Romana”, una pace imposta attraverso la violenza del conquistatore, lo sfruttamento e l’umiliazione della schiavitù, con il silenzio della morte come unica alternativa. Questo era un modo di fare, che è stato ripetuto molte volte nei secoli che seguirono, e sembra andare di moda anche oggi.
Nel Tempio di Gerusalemme, ogni giorno erano offerti preghiere e sacrifici per confermare la fede del Dio unico, nel Dio della promessa ad Abramo, della liberazione dall’Egitto e della speranza di una salvezza futura. Era lì che il Signore Dio si faceva prossimo al suo popolo, pronto ad ascoltare le loro preghiere e ad invitarli ad una maggiore fedeltà all’alleanza.
Dio si è fatto vicino al suo popolo, in un modo che non ha paragone con altri popoli:“Che cioè un popolo abbia udito la voce di Dio parlare dal fuoco, come l’hai udita tu, e che rimanesse vivo? O ha mai tentato un dio di andare a scegliersi una nazione in mezzo a un’altra con prove, segni, prodigi e battaglie, con mano potente e braccio teso e grandi terrori, come fece per voi il Signore, vostro Dio, in Egitto, sotto i tuoi occhi? Tu sei stato fatto spettatore di queste cose, perché tu sappia che il Signore è Dio e che non ve n’è altri fuori di lui” (Deut 4,33-35). Questo Dio potente ha dato al suo popolo una legge che è stata iscritta nel loro cuore: “Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo, perché tu dica: «Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?». Non è di là dal mare, perché tu dica: «Chi attraverserà per noi il mare, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?». Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica” (Deut 30,11-14). Lo stesso Dio si è paragonato ad una madre amorevole, per sottolineare l’affetto speciale che sentiva pei suoi figlioli: “Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai” (Is 49,15).
Per me c’è un altro segno che ci permette di capire meglio, anche se forse in maniera non convenzionale, la vicinanza di Dio al suo popolo. Nella prima rivelazione a Mosè, nel roveto ardente nel deserto, il Signore si è chiamato: “Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe” (Ex 3,15). Nella tradizione di ogni nazione, i figli sono identificati con il nome del loro padre. Questo era più evidente in Europa prima dell’introduzione dei codici napoleonici, ma è ancora abbastanza chiaro, considerando cognomi svedesi come Gustavsson – figlio di Gustavo, Andersson – figlio di Andrea, Johannsson – figlio di Giovanni, ed altri simili. Nella tradizione italiana, la vocale “i” che si trova frequentemente alla fine di un cognome, come il mio “Tonucci”, indicava il genitivo, con lo stesso significato. In altre parti del mondo, questo uso è ancora comune, e i bambini sono identificati come “figlio di”: conosciamo l’uso islandese di “son – figlio” e “dottir – figlia”, e, nel Medio Oriente, “Bar”, “Ben”, e in Africa “Arap”, “Ole”, “Mwana” e così via. Ora, non vi sembra incredibile che Dio, al contrario, vuole essere identificato con i nomi dei suoi figli, con i nostri stessi nomi?
Questo è il Dio che ci dice: “Quando Israele era fanciullo, io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio. (…) A Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore, ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia, mi chinavo su di lui per dargli da mangiare” (Os 11,1.3-4). Questo è il Dio che il gruppo dei devoti Ebrei ha invocato, cantando le loro preghiere vicino al Moro Occidentale, e ripetendo la loro invocazione, il loro lamento: “Fino a quando, Signore?” (Sal 12,2)
Ci sono molte ragioni per le lacrime di un intero popolo: esse sono schiavitù, esilio, diaspora, e “shoa”. Il rumore della distruzione delle vetrine dei negozi di cittadini Ebrei, in quella notte infame, risuona ancora come una voce accusatrice, che copre tutti noi di vergogna infinita. È stato solo un segnale, un avvertimento anticipato dell’immensa tragedia che doveva seguire. E noi possiamo ripetere insieme: “Fino a quando, Signore?”.
Alcuni giorni fa, ho letto un documento, scoperto recentemente negli archivi dell’Università di Tel Aviv. È un articolo pubblicato su “The Palestine Post”, ora conosciuto come “The Jerusalem Post”, il 28 aprile 1944. L’autore dell’articolo, un anonimo ebreo tedesco, racconta la sua personale esperienza, nel 1941, in Vaticano. Il giovane era andato per cercare aiuto per gli ebrei che erano tenuti rinchiusi dai fascisti in un campo di internamento italiano. Dopo averlo ascoltato, il Papa disse al giovane ebreo: “Hai fatto bene a venire da me e a dirmi queste cose. Ne ho già sentito qualcosa. Torna domani con un rapporto scritto e dallo al Segretario di Stato, che segue la questione. Ma ora, per te, figlio mio. Tu sei un giovane ebreo. So quello che vuol dire e spero che tu sarai sempre fiero di essere ebreo”. E l’articolo continua: allora Pio alzò la voce, in modo che tutti nella sala, compresi alcuni soldati tedeschi che erano presenti all’udienza, potessero sentirlo: “Figlio mio, se tu sei più degno di altri lo sa solo Dio, ma credimi, tu sei almeno così degno come ogni altro essere umano che vive sulla terra! E ora, amico ebreo, va’ con la protezione del Signore e non dimenticare mai che devi essere sempre fiero di essere ebreo!”
Ricordiamo le parole di San Paolo nella sua lettera ai Romani, quando parla del popolo di Israele, il popolo al cui si riferisce come “miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne”. Egli ci ricorda che essi hanno ancora “l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse; a loro appartengono i patriarchi e da loro proviene Cristo secondo la carne” (Rom 9,4-5). La nostra percezione della missione affidata a ciascuno di noi può essere differente, ma questa grande realtà rimane, come una sfida per la nostra comprensione: “Quanto alla scelta di Dio, essi sono amati, a causa dei padri, infatti i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!” (Rom 11,28-29).
È nostro desiderio che ogni figlio del popolo d’Israele possa essere sempre fiero di essere ebreo e che sia sempre libero di esprimere fierezza per questo dono e questa vocazione.
Ancora, il Signore Dio dice: “Ecco, sulle palme delle mie mani ti ho disegnato,
le tue mura sono sempre davanti a me” (Is 49:16). Tristemente, gli uomini, anche alcuni di quelli che hanno ricevuto la promessa, tendono a dimenticare, e a dimenticare malamente. Ma Dio non dimentica mai la sua scelta.