Quando stavo per partire da Roma per Yaoundé, per raggiungere la mia prima missione come addetto di Nunziatura, tutte le indicazioni che ricevetti sul mio prossimo Capo Missione erano negative. Un amico che era stato suo segretario in Tailandia me lo descrisse per lettera come un fanatico dell’ordine e molto autoritario. Il suo successore nella stessa missione mi disse lo stesso. In Segreteria di Stato, chi mi salutava mi batteva la mano sulla spalla, augurandomi buona fortuna e aggiungendo che, comunque, sarei rimasto con lui solo qualche anno. Come risultato, partivo pieno di paura per quello che mi aspettava.
Capii più tardi le ragioni dei timori che c’erano a Roma, ma la questione non riguardava me, anche se mi coinvolgeva. Quando il Nunzio era stato trasferito dalla Thailandia al Camerun, gli era stata affidata la missione di risolvere una situazione difficile, peggiorata dalla poca sensibilità del suo predecessore. Il vescovo di Nkongsamba, Ndongmo, era stato processato per tentato colpo di stato e attentato alla vita del Presidente, ed aveva ricevuto due condanne, a morte e all’ergastolo. La pena fu poi commutata a due ergastoli e il presule fu confinato in un campo di prigionia a Tcholliré, nelle aride regioni del Nord del Camerun.
Dato che si trattava di un lavoro duro, in Segreteria di Stato gli avevano assicurato che poteva contare sull’aiuto di Mons. Pietro Sambi che, come segretario, aveva vissuto l’intera vicenda. A distanza di meno di un mese, invece, Mons. Jadot venne a sapere che Sambi era trasferito a Gerusalemme e che, a rimpiazzarlo, gli era mandato un novellino, senza alcuna esperienza. Aveva protestato per questa decisione, e di qui nacque l’idea che fosse una persona difficile e che potesse essere poco benevolo nei miei confronti.
La realtà fu invece molto diversa. Pian piano, riuscii a superare le difficoltà di comunicazione, dato che il mio francese era molto povero e il Nunzio non parlava affatto italiano. Con l’impegno e la pazienza di tutti in casa, riuscii ben presto ad esprimermi con chiarezza ed anche le nozioni apprese a scuola tornarono in mente e mi furono utili.
Monsignor Jadot fu estremamente cortese, senza essere mai troppo blando. Ricevetti diversi richiami, ma sempre con attenzione e a ragion veduta. Condivideva con me le questioni da trattare e ascoltava i miei pareri. All’inizio mi dovette richiamare più volte per farmi capire che l’Africa non è l’America Latina. Con l’esperienza avuta in Brasile e gli studi fatti su quel paese, tendevo a trasferire anche nelle questioni camerunesi le categorie mentali latinoamericane. Jadot conosceva bene l’Africa, avendo lavorato per più di dieci anni nel Congo Belga, al quale Mobutu stava cambiando nome, chiamandolo Zaire. Per questo, seppe capire meglio del suo predecessore la mentalità dei suoi interlocutori e riuscì ad avviare un risanamento della situazione negativa che aveva trovato all’arrivo.
Nella gestione del mio servizio, potei capire alla svelta che il Nunzio non era fanatico dell’ordine, ma solo desideroso di vedere le cose al loro posto. Quando mi chiese un documento e glielo estrassi subito dall’archivio, si mostrò sorpreso e mi disse: “A Bangkok non si trovava mai nulla!” Qualcosa di analogo accadde a Natale: tornando dalle rispettive celebrazioni in parrocchia, pranzammo insieme con le signorine, Ausiliarie dell’Apostolato, che lavoravano con noi. Alla fine di disse: “Così è bello! A Bangkok ho visto il segretario soltanto alla sera tardi e solo allora gli ho potuto augurare un buon Natale”.
Passavamo molto tempo insieme. Terminato il lavoro d’ufficio, uscivamo spesso per fare una breve passeggiata dentro e fuori del giardino della Nunziatura. Lui veniva da me a invitarmi, o ero io a invitare lui. Se avevamo impegni altrove o se c’era lavoro da finire, uno dei due usciva da solo.
Mons. Jadot aveva una intensa vita di preghiera. Si alzava presto al mattino e scendeva subito in cappella. Quando, alle 8:30, ci trovavamo insieme per la prima colazione, aveva già celebrato Messa. Poi, nel tardo pomeriggio, dopo la mia celebrazione, andava di nuovo in cappella fino all’ora di cena. Recitavamo insieme compieta, prima di ritirarci nei rispettivi appartamenti per la notte.
Dopo qualche mese di lavoro insieme, notando in me qualche segno di stanchezza, mi propose di andare per qualche giorno ad Ambam, allora in diocesi di Sangmelima, dove c’era una comunità di missionari italiani: “Così almeno avrà qualcuno con cui potrà rilassarsi, parlando italiano”. Nel mese di febbraio del 1973 mi chiese di andare per una settimana nella regione al nord del paese. C’era da chiedere ai Prefetti apostolici di Yagoua e di Maroua-Mokolo il consenso alla loro nomina episcopale, dato che le prefetture sarebbero state elevate allo stato di diocesi. Era una missione facile, e per me fu soprattutto un viaggio meraviglioso, in un mondo completamente diverso dalla regione centrale, con paesaggi aridi e popolazioni primitive. L’esperienza della vita di missione, in una zona di recente evangelizzazione, fu molto interessante. Ogni volta che guardo di nuovo le foto che scattai durante il viaggio, provo un sentimento di gratitudine per il Nunzio.
Due gesti di simpatica cortesia: quando, dopo il primo anno, partiva per le vacanze, nell’edicola dell’aeroporto andò a comperare una cartolina, con una foto di due scimmiette che giocavano insieme, e me la diede: “Come ricordo della nostra buona collaborazione”. Quando ero già a Londra e lui a Washington, Monsignor Ndongmo fu finalmente graziato. Mons. Jadot mi mandò un ritaglio di stampa che ne parlava e aggiunse a mano: “Una notizia che ci fa piacere. Ci abbiamo lavorato insieme”.